parole in assenza

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Vomitavo parole ogni volta che qualcosa mi affliggeva. Ero adolescente. Prendevo un diario e scrivevo. Vedere lettere mescolarsi sul foglio era una certezza. Oggi non riesco come un tempo a lasciar fluire i pensieri dalla testa alla mano. Restano intrappolati in un punto del cuore e fanno rumore dentro, ma restano silenziose fuori.

Non ci sei più. E questo è un fatto.

Non sentirò più la tua voce che mi racconta. Né i tuoi occhi a cui non sfuggiva nulla. Questo è un altro fatto.

Ora, questi due fatti mi fanno sentire persa e spaventata.

La mente si difende rifugiandosi nell’oblio, cancella, rimanda in un cassetto nascosto l’emozione che rischia di straripare. Temo di scordare i momenti belli perché si finisce sempre per ricordare perfettamente quelli brutti.

Il momento in cui hai smesso di respirare ero lì, accanto a te.

Nulla e nessuno mi avrebbero potuta spostare dal tuo letto, dove lottavi per la vita, aspettando con sfinimento la morte.

Lo sapevi da settimane. Tu sapevi che il tuo corpo cedeva, che la tua mente ti abbandonava.

Eri legata a tutti noi. Eravamo noi la tua forza.

Ho invidiato la tua fede in un dio che ti ha messa alla prova con tanta durezza nella malattia. “Dolce cuore di Gesù”… recitavi. Io ci vedevo accanimento, tu amore.

Quanto vorrei essere semplice e buona come lo sei stata tu.

Un attimo prima di lasciarmi hai stretto gli occhi, forte, come se stessi piangendo e forse eri davvero triste perché dovevi andar via e a noi lasciavi un vuoto senza fondo. Una lacrima, poi un’altra ti hanno rigato il volto, hai svuotato i polmoni con un soffio leggero, poi c’è stato il dolore, il nostro, quello che ti spiazza, viene da dentro, sale e si insinua ovunque, lasciando la testa vuota e incapace di reagire.

Non ho pianto subito. Ho fatto cose, spostato oggetti, chiamato persone perché quel silenzio in assenza del tuo respiro era insopportabile. Era assordante.

Ti abbiamo vestita con cura, con l’abito bello, ormai largo per il tuo corpo sciupato. Ho reagito per non soccombere.Nella certezza della morte siamo minuscoli e impreparati. Siamo corpi sommersi dal vuoto.

Le ore sono trascorse con una lentezza sconcertante e subito si è fatto un nuovo giorno. L’alba del tuo funerale mi ha vista al tuo capezzale con mamma e zia. C’erano caffè e cornetti, come a voler addolcire un’amarezza che dalla bocca non andava via. Eravamo noi tre a vegliarti, come nelle tante mattine dopo una nottata trascorsa con te.

Non mi stenderò più al tuo fianco a sentire i “conti” e non mi stringerai più le mani. Anche questo è un fatto.

Durante l’ultima notte passata con te già la stanchezza ti impediva di chiacchierare fino a tardi. Abbiamo dormito mani nelle mani, stese su un fianco, a guardarci negli occhi per parlare senza parole e godere semplicemente della presenza. Nella notte mi toccavi le braccia per controllare se avessi freddo. Era il tuo amore. Tu controllavi me e mi incitavi a prendere una coperta se avessi avuto freddo. Ma era già l’inizio di luglio, nonna cara. Fuori era caldo. Il freddo era solo dentro di noi.

 

 

 

 

Permessi non concessi

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Un tempo credevo nel valore della politica, mi piaceva e la seguivo. Ne coglievo gli aspetti nobili e umani. C’erano degli schieramenti per i quali parteggiare e si litigava a cena con gli amici sostenendo le idee della propria parte politica. Mi affascinava il fatto che per anni i giovani del nostro paese si fossero interessati alla cosa pubblica, si fossero battuti per un’ideologia che non seguisse il mero interesse personale. Mi legava alla politica un idealismo nei valori sociali ed etici. Sentirsi una parte (importante) del tutto è meraviglioso. Pensare di mettere un mattone personale, giorno dopo giorno, per la costruzione della nazione è gratificante.

Oggi mi guardo intorno. La politica non ha più volto, né ideologia. E’ corruzione e malaffare. E’ tutto frammentato e lercio. Litigi, soprusi, regole dettate da un qualunquismo dilagante, votato alla denigrazione di ogni settore pubblico e privato. Il rispetto delle cariche e delle coscienze dov’è finito? Quando abbiamo smesso di rispettarci come esseri umani e come cittadini di un paese che ha una storia e sostrato culturale unico al mondo?

Quando siamo sprofondati in questo pasticcio?

Da oltre vent’anni vediamo più o meno le stesse facce che incollate alla poltrona godono di stipendi e pensioni, di privilegi e non fanno altro che promesse da marinaio per poi gettare il paese, il nostro bellissimo paese, nella vergogna. Come vi siete permessi?

Di contro, noi cittadini siamo stufi, completamente disaffezionati al territorio, alle tradizioni, alle cose che ci appartengono e che non sappiamo più valorizzare. Tutti demeriti e mai meriti. Che fine hanno fatto quei giovani che volevano costruire un posto migliore per i propri figli? Perché non ci riprendiamo quello che ci appartiene e che giorno dopo giorno vediamo logorarsi all’ombra degli interessi personali?

Siamo stanchi, mortificati, impegnati a sbarcare il lunario, spaventati da un futuro che ci viene negato, confusi dal superfluo e dal pettegolezzo di palazzo, imbarazzati di rappresentare un paese che ci fa vergognare di essere nati qui, disillusi perché sono tanti anni che vi permettete, indistintamente, di vivere sulle nostre spalle.

Il Karma ha i suoi tempi, adesso credo in lui….

Il cassetto dei sogni chiuso a chiave

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Ci vogliono pazienza e coraggio per essere un trentenne ai giorni nostri.

Molti ci considerano una generazione di sfigati, altri di bamboccioni, altri ancora, di precari. In fondo siamo tutto e niente.

Le generazioni precedenti alla nostra amano etichettarci, hanno l’esigenza di farci rientrare in una categoria, ci denigrano il più delle volte, o adorano compiangerci per l’assenza di futuro, che in molti hanno contribuito a garantirci.

I miei genitori a trent’anni avevano una vita, delle responsabilità che avevano potuto assumersi, avevano figli, famiglia e anche se non navigavano nell’oro, operavano rinunce quotidiane, ma potevano sperare in uno stato garantista e in un futuro in fieri.

Oggi. Trentenne. Laurea in comunicazione inutile perché non supportata da specialistica e master. Anni di studio e lavoro, vani. Nessun sogno nel cassetto. Ci impongono flessibilità.

Dobbiamo reinventarci personalità e mestiere perché il posto fisso non esiste più. O siamo poliedrici o falliti. Non ci sono vie di mezzo. Abbiamo sempre la sensazione di non avere tempo, di non avere opportunità. Siamo illusi se custodiamo un sogno e vorremmo realizzarlo.

Poi il più delle volte ci capita quello che è capitato a me stamattina.

Faccio la segretaria. Ottimo ripiego rispetto al nulla che ho intorno. Trascorro le giornate accanto a un geometra. Un uomo di mezza età, come mio padre, che con un semplice diploma di scuola superiore, può permettersi di ricoprire un ruolo importante. “Eh beh, ma lui si è diplomato quarant’anni fa. Oggi i geometri non sanno nulla”. Questa è una delle risposte più frequenti alle quali ci hanno abituato. E noi ci crediamo. Mossa da curiosità personale ho fatto domande sull’esecuzione dei lavori, non con la presunzione di capire, ma spinta dal soggettivo interesse ad imparare qualcosa di nuovo, totalmente estraneo al mio ambito. Mi sento rispondere “Aahh, non mi fare domande tecniche. Fammi domande umanistiche, ma non tecniche”.

Ho taciuto, mortificata. Sono tornata al mio posto a dedicarmi al mio blog di sfogo e alla lettura. Pretendo da me calma e tanta umiltà. Non so ancora per quanto sarò disposta a darmene. Alternativa assente. Spese mensili garantite da una convivenza che esige da noi sacrifici economici ed affettivi. Per noi trentenni sta diventando un lusso anche sognare.

Fingiamo di fare lavori importanti mascherati da parole straniere che ci danno un tono, ma non uno stipendio. Ci arrabattiamo tra due o più lavori per essere impegnati e guadagnare un minimo che non metteremo da parte, ma che impiegheremo nelle bollette e nella spesa quotidiana.

E’ triste oggi avere trent’anni, soprattutto è dura temere di invecchiare e di non avere la forza e l’energia di reinventarsi ancora, forse una volta di troppo per essere quello che il mercato vorrebbe, ma che in definitiva noi non saremo mai.

Il mercato dell’ego

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Non me ne voglia nessuno, non sono solita fare di tutta l’erba un fascio, ma sono stufa: vegetariani e vegani, avete rotto le palle!

Dispiacetevi quanto volete per mucche, maiali, capre, uccelli, formiche, cavallette, pesci, ragni e tutte le creature del creato, mangiate quello che vi pare, ma potreste farlo in privato?

“La mia libertà finisce dove comincia la tua”, vorrà pur dire qualcosa. A molte persone la carne, il latte, le uova piacciono tanto e non vogliono farne a meno.

La vostra campagna contro il genocidio degli animali sta diventando una violenza psicologica. E’ difficile mangiare un hamburger senza sentirsi Hannibal, tra foto, post e collegamenti di animali “torturati” e uccisi. Basta!!!

Potremmo non sentirci dei mafiosi, assassini senza cuore ad ogni pasto?

Ma non finisce qui.

L’ultimo trend dei cari amici vegani, di uno in particolare, che ho tra i miei contatti, è lanciare anatemi ai cacciatori, specie adesso che siamo in periodo venatorio.

Mi permetto una premessa.

Provengo da una famiglia di cacciatori: lo è mio padre, lo era mio nonno, il padre di mio nonno e finanche il nonno di mio nonno. Nei decenni il modo di cacciare non è mai cambiato, se non le leggi inasprite e tante tasse da pagare. Tutto ormai si riduce a 5 mesi di “passeggiate” in montagna col cane, si uccidono certo, poveri uccelli indifesi, ma alcuni contadini sono costretti a cacciare perché i volatili mangiano il raccolto, ma questa non vuole essere una blanda giustificazione al fatto che in sé è opinabile.

Quella venatoria è un’attività antica, che prevede il rispetto della natura. I veri cacciatori rispettano montagne e boschi, raccolgono le cartucce usate e amano mangiare quello che hanno cacciato. Io lo intendo come un ritorno alle origini, al contatto con la terra, a un aspetto primordiale che comunque ci appartiene, ma che stiamo perdendo del tutto.

Proprio non capisco, eticamente, c’è differenza tra il comprare la carne dal macellaio e cacciarsela da soli? Tra comprare un pesce in pescheria o pescarselo da soli (perché è lo stesso discorso anche per loro) ??

Credo che siamo tutti troppo condizionati dalla versione disneyana degli animali, non distinguiamo più realtà e fantasia, siamo in preda a estremizzati sentimentalismi.

Tutta questa manfrina di antefatto perché ieri ho avuto una discussione con un conoscente che da un po’ di tempo è vegano. Dopo aver pubblicato l’ennesimo post sui cacciatori, vittime di incidenti mortali durante l’attività venatoria, mi sono cominciate a girare vorticosamente perché pensavo “ma che è contento?? Ama gli animali ed è contento se un tizio muore? Questo è fuori!!!”. Il motivo da lui addotto agli eventi nefasti è un fantomatico karma, che per punizione all’aver ucciso un uccellino, fa trovare ai cacciatori la morte in modi tremendi.

Adesso, via, siamo seri. Io al karma ci credo, ma non in modo così miserabile. Allora ho cominciato a pormi un milione di domande, alle quali mi urgono altrettante risposte.

Perché si sente sempre così tanto il desiderio di ostentare un ideale, di mostrare l’appartenenza a un gruppo piuttosto che ad un altro?

Non riusciamo ad “essere” e basta? Dobbiamo davvero portare tutto all’esasperazione?

Che noia.

Ostentiamo per convincerci di essere, questa è la mia verità.

Appartenere ci dà la sicurezza che non troviamo dentro di noi, questa la mia opinione.

Siamo diventati egoici ed egocentrici, ma terribilmente insicuri, ci servono approvazione e gradimento sociale, ci serve dire agli altri come siamo, magari togliendoci il gusto della scoperta, ma dobbiamo farlo per confermarlo prima a noi stessi. Non servono più azioni, ma post, parole, modi di dire, citazioni per affermare e puntualizzare cosa ci piace, qual è il nostro credo, il nostro orientamento sessuale, la nostra politica, cosa odiamo e cosa ci appassiona. Tutto è volgarmente esposto come su una bancarella, in modo sciatto e disordinato.

A me manca il confronto, mi mancano le persone stimolanti, mi manca guardare negli occhi un amico ed incontrarlo casualmente al bar per scambiarci due parole e chiedergli come sta riempiendo le sue giornate; se apro i social lo so già e se non li apro c’è qualcuno che me lo racconta, magari su whatsapp.

Amo i progressi della tecnologia che mi permette di parlare tutti i giorni con le persone fisicamente lontane, senza prosciugare il mio esiguo conto in bollette telefoniche, ma ho notato che ogni progresso siamo capaci di trasformarlo in regresso, che abilità!!

sarà solo un altro blog

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Van Gogh - Teschio di uno scheletro con sigaretta accesa

Van Gogh – Teschio di uno scheletro con sigaretta accesa

Tutti al giorno d’oggi hanno un blog. Tutti hanno qualcosa da dire su qualcosa. La cosa davvero drammatica è la presunzione che gli articoli inseriti siano interessanti per qualcuno, che un giorno saranno letti da tante persone, suscitando l’invidia di altri blogger e la stima di tanti lettori…. E pensare che ai tempi dell’università ho seguito un seminario per capire cosa fosse il nascente “blog” e cosa si potesse fare con un nuovo modo di comunicare e l’avevo trovato interessante, ma ero così presa da me stessa e dalla vita fuori casa, che non ho mai avuto tempo per farlo. La proliferazione di pagine personali è davvero molto noiosa, soprattutto perché tutti pensano di avere un’opinione su tutto. E questa presunzione è fastidiosamente diffusa. Io userò il mio blog come diario, come valvola di sfogo, come sacco da prendere a pugni quando mi gireranno vorticosamente, quindi spesso. Sarà un modo per rileggere a distanza di tempo i miei malumori e far in modo che le cose irritanti perdano il loro potere su di me. Chissà se la mia incostanza troverà spazio anche in queste pagine.